a cura di Laura Ricci
Indubbiamente, fra gli squamati, i sauri sono quelli dotati di caratteristiche etologiche ed ecologiche più diversificate. Taluni taxa rivelano complessi comportamenti e strutture sociali, cure parentali, capacità cognitive e probabilmente il taxon più significativo, sotto questo aspetto, è quello dei varani (Varanidae). Se poi ci riferiamo a Reptilia, il discorso si fa ancor più complesso: basti pensare a Crocodylia, ma anche alle tartarughe e testuggini (Testudines). (1)
Con il progresso delle conoscenze e il superamento di arcaici stereotipi (ben radicati anche fra gli “addetti ai lavori”), ci si sta rendendo conto di quanto, in questo ambito, anche gli ofidi possano rivelarsi sorprendenti, premessa che consente, oltretutto, di valutare la possibilità che esistano, presso Serpentes, tipologie più complesse di apprendimento, come ad esempio l’ “apprendimento sociale”, ovvero quella tipologia di apprendimento derivante dalle interazioni con i conspecifici (32). Nonchè, più complesse capacità cognitive rispetto a quanto ipotizzato in precedenza, discorso in realtà applicabile all’intera classe Reptilia (32), (33), (34), (35)
Si noti bene come il presente articolo non si prefigga lo scopo di stravolgere totalmente quanto fino ad ora sostenuto: non bisogna cadere nell’errore (complice la tendenza umana che ci porta ad antropomorfizzare gli altri esseri viventi) di attribuire a questi animali una “intelligenza”, una sorta di “empatia” e una serie di capacità a loro estrenee.
Tuttavia, ignorare nuove conoscenze aggrappandosi a convinzioni obsolete, qualora tali nuove conoscenze siano sostenute da basi rigorosamente scientifiche, si rivelerebbe un errore parimenti grossolano.
Andiamo, di seguito, a contestualizzare questa premessa passando in rassegna pubblicazioni e studi più o meno recenti che ci permettono di considerare l’ordine Serpentes sotto una nuova luce, fermo restando che, in particolare in alcuni casi, le conoscenze attuali sono ancora frammentarie e necessiterebbero di studi più approfonditi e mirati.
Caccia di gruppo, caccia coordinata, altruismo accidentale e feeding congregation

Recentemente ha fatto molto discutere un video della BBC, presente nella raccolta “Planet Earth II: Islands”, nel quale svariati serpenti (nel video genericamente “racers”, ma si tratta di ofidi della specie Pseudalsophis occidentalis) cacciano delle giovani Amblyrhynchus cristatus (Iguana marina), in concomitanza con la schiusa delle uova presso l’isola di Fernandina, sita nell’arcipelago delle Galapagos.
La domanda che è sorta in molti, a seguito della visione del documentario, è stata: “Stiamo assistendo ad un fenomeno di caccia di gruppo/caccia coordinata?”
Come è noto, primariamente per il fatto che i serpenti ingollano prede intere e quindi sono impossibilitati a dividere con i conspecifici queste ultime, nonchè in virtù dell’ofiofagia (sensu stricto o opportunistica) di molte specie, è pensiero comune che essi non possano praticare alcuna tipologia di caccia di gruppo.
Tuttavia, in particolari circostanze, la cooperazione nella caccia potrebbe rivelarsi non così inspiegabile: sempre riferendoci al video, bisogna considerare che l’ambiente insulare, per sua natura, fornisce un quantitativo limitato di risorse alimentari. Evoluzionisticamente parlando, l’alto numero di serpenti rapportato al basso numero di prede potrebbe aver fatto sviluppare, in determinate specie e appunto in determinati contesti “isolati”, dei meccanismi e comportamenti sociali ad hoc.
D’altronde gli ecosistemi insulari sono noti per essere, sotto svariati aspetti, unici e particolari e per l’avere un elevato tasso di speciazione, (7) tasso di speciazione che è inversamente proporzionale alla distanza dell’isola dalla terraferma (quindi ci si aspetta una speciazione maggiore nelle isole più remote). (6)
La riduzione dei rapporti di scambio con il continente o le altre isole influisce in vario modo sulle popolazioni. In linea generale si può affermare che ciò abbia una elevata incidenza sulla microevoluzione: si verificano cioè cambiamenti evolutivi che hanno evidenza in tempi molto brevi.
Più nel dettaglio, la “regola di Van Alen” (5) teorizza che gli ecosistemi insulari, o meglio sarebbe dire i rapporti fra le specie insulari, incidano anche sulle dimensioni medie dei vari esponenti della fauna, uniformandole e producendo conseguenti fenomeni di nanismo o gigantismo, a seconda dei taxa.
Gli endemismi insulari spesso sviluppano fenotipi unici anche a livello di varianti intraspecifiche e non a livelli più alti (escludendo quindi i fenomeni di speciazione vera e propria): questo è dovuto all’elevato tasso di inbreeding. Pensiamo a come di per sé le popolazioni insulari si originino, filogeneticamente, da un piccolissimo numero di esemplari di partenza, in alcuni casi anche da un’unica coppia (6): a questo aggiungiamo i succitati ridotti scambi con altri ambienti e la pressione della selezione naturale, appunto maggiore sulle isole. Questa concomitanza di fenomeni velocizza i processi di manifestazione e stabilizzazione delle mutazioni genetiche. Gli esempi che, a riguardo, si potrebbero citare, sono tantissimi, per rimanere anche solo in Italia basti pensare ad alcune sottospecie di Podarcis siculus (la P. siculus coeruleus dei faraglioni di Capri o la P. siculus cetti di Sardegna e Sicilia). (8) (9)
Altri autori poi ci parlano di una innegabile “inflazione della densità” intraspecifica e di specie che si adattano con successo ad occupare nicchie ecologiche normalmente estranee alla loro fisiologia. Ciò si riflette anche sull’eto-ecologia delle varie specie, con alterazioni delle dinamiche territoriali, del rapporto aggressività-difesa etc. La “teoria della difesa“(Stamps e Bauchner, 1985), ad esempio, sostiene che la riduzione dello spazio territoriale del singolo esemplare, che provoca una conseguente sovrapposizione di aree territoriali di, appunto, più esemplari, determini una maggiore tolleranza intraspecifica nonchè un calo della difesa territoriale. I costi, in termini di dispendio energetico, della difesa del territorio, risulterebbero troppo elevati e dispendiosi in tali contesti sovraffollati come anche i costi della riproduttività, che parimenti passa in secondo piano rispetto all’esigenza di dar luce a prole più competitiva.

Questo ultimo punto risulta effettivamente di particolare interesse, rapportandolo al documentario di cui sopra e in generale il quadro ivi proposto, comunque riassuntivo e parziale dei meccanismi propri degli ecosistemi insulari, va a costituire un valido termine di paragone per poter quantomeno ipotizzare che, nella misura in cui così tanti aspetti risultano influenzati dall’insularità, questa ultima possa influenzare anche le dinamiche sociali strettamente connesse alla caccia di gruppo.
Purtroppo si fa sentire la carenza di studi etologici ed ecologici adeguati su Pseudalsophis occidentalis, ma la tesi si rafforza considerando quanto appurato per altri taxa.
Per continuare con esempi di possibili adattamenti eto-ecologici di endemismi insulari è doveroso citare lo studio effettuato su Gloydius shedaoensis (3), un Viperide endemico dell’isola cinese di Shedao e presente presso questa con un numero di esemplari assai elevato (addirittura si parla di oltre un serpente/mq). Questa è la sola specie di ofide a popolare l’isola.
Si è notato come i giovani individui siano soliti uccidere prede sovradimensionate rispetto alla loro taglia, non nutrendosene e abbandonandole. Tali prede diverranno, successivamente, il pasto degli esemplari più grandi.
Gli adulti, di contro, uccidono svariati uccelli che non costituiscono una minaccia per loro stessi (e che sono anche troppo grandi per far si che riescano a nutrirsene) ma che, invece, sono soliti predare i giovani.
Questo comportamento viene definito, nella pubblicazione, “altruismo accidentale“: tale pratica si dimostra in contrasto con le teorie evoluzionistiche della scuola darwiniana, che considerano l’emergere di determinati tratti connesso al “selfish gene” : quindi, un determinato carattere emerge qualora possa portare vantaggi all’individuo che lo manifesta.
In termini di individuo, la pratica ha esclusivamente costi e non vantaggi (la produzione di veleno implica un alto dispendio energetico); tuttavia, in termini di specie, queste pratiche hanno il vantaggio di permettere la sopravvivenza di un maggior numero di giovani esemplari e, conseguenzialmente, ciò si riflette sulla sopravvivenza e sulla salute della specie stessa.
Va considerato comunque che, al di la del dispendio energetico causato dalla produzione di veleno, è senza dubbio meno impegnativo, per un ofide estremamente velenoso come la suddetta specie, uccidere una preda (rimanendo in tema ofidi anche rispetto ad un, ad esempio, costrittore): probabilmente se l’azione fosse risultata più impegnativa per il singolo esemplare una simile pratica non si sarebbe mai sviluppata.
Inoltre, nella rapidità dell’azione, non sempre un serpente è in grado di valutare correttamente le dimensioni di ciò che si accinge a mordere, cosa che potrebbe in parte motivare l’uccisione di prede sovradimensionate e poi abbandonate.

DOI: 10.1002/ar.21322 · Source: PubMed
Quando si parla di caccia di gruppo, viene spesso citato anche questo video che, secondo alcuni, riprenderebbe appunto il fenomeno di caccia coordinata. La specie ripresa è Laticauda colubrina, un Hydrophiinae che popola Oceano Indiano e Pacifico (è tra le specie più note e studiate di questo clade).
In realtà, stando esclusivamente al video, qualunque conclusione cui si possa giungere peccherebbe di soggettività: non è possibile stabilire se i serpenti si stiano semplicemente dirigendo verso una ricca fonte di cibo (banco di pesci), e quindi siano casualmente presenti in grande numero in relazione al gran numero delle prede, oppure se i loro movimenti e le loro scelte possano derivare da una qual sorta di coordinazione.
Interessante è anche il caso di Chilabothrus angulifer e C. inornatus, due specie di Boidi presenti rispettivamente a Cuba e Puerto Rico (2).
Al crepuscolo, un gran numero di questi Boidi si riunisce presso caverne frequentate da pipistrelli, intercettandoli e nutrendosene sia quando questi lasciano le caverne per, a loro volta, cacciare, sia quando rientrano, verso l’alba.
Nuovamente la BBC, nella raccolta Planet Earth, documenta questa pratica (video) ma ciò che è davvero degno di nota è una recente pubblicazione (2), che, avvalendosi di modelli statistici, sembrerebbe dimostrare come le posizioni assunte dai Chilabothrus, durante la caccia nelle caverne non siano casuali ma seguano precisi schemi.
Comunque, l’interpretazione di questo studio e in generale di questo comportamento è tutt’ora controversa e non mancano gli oppositori alla teoria della “caccia di gruppo”, che considerano le conclusioni alle quali è giunto l’autore della pubblicazione troppo affrettate e tendenziose.

In questo caso come per quanto concerne il video degli P. occidentalis e quello dei L. colubrina, è bene soffermarsi sul fatto che la presunta caccia coordinata/di gruppo si verifica, in tutti e tre i succitati casi, in un momento in cui vi è una elevata concentrazione di prede rispetto allo standard dell’ecosistema specifico, nel primo caso durante la schiusa delle uova di Amblyrhynchus cristatus, nel secondo e nel terzo caso dinnanzi a gruppi di per se numerosi di prede (pipistrelli e pesci): va quindi precisato che in nessuno di questi casi si assiste ad una predazione o a un tentativo di predazione nei confronti di un singolo esemplare da parte del gruppo di caccia, cosa che invece si verifica notoriamente per altre Classi con comprovate strategie di caccia coordinata.
Questi fenomeni possono a ragione rientrare nella definizione di “feeding congregation“.
Un altro esempio di questa pratica è costituito dalla predazione, da parte del genere Agkistrodon (Crotalinae) nei confronti delle cicale nel momento in cui, annualmente e in concomitanza, esse emergono dal suolo/dalle radici degli alberi (di cui le larve si nutrono) per completare la metamorfosi da larva ad adulto. (21)
I “garter snake”, o i keelback, o i Natricidae/Natricinae, o comunque in genere quei taxa che hanno un’ecologia legata agli ambienti acquatici, spesso sono stati osservati durante situazioni di feeding congregation: è regionevole quantomeno supporre che ciò sia connesso alla più frequente possibilità di riscontrare le loro tipiche prede raggruppate in gran numero (banchi di pesci, larve di anfibi etc). D’altronde i garter sono etologicamente particolari, per quanto concerne gli aspetti sociali, come avremo modo di approfondire in seguito.
In questo senso, comunque, si può interpretare questo video, che riprende un gruppo di Xenochrophis piscator, presso il Keoladeo National Park (India) intento a predare appunto dei pesci.
Cure parentali
Per lungo tempo si è ritenuto, alla stregua di quanto sostenuto relativamente ai comportamenti sociali in generale, che gli ofidi non praticassero cure parentali.
Una delle motivazioni principali di ciò è sicuramente il fatto che le cure parentali di questo clade non possono essere paragonate per complessità, variabilità e rapporto fra il numero effettivo di specie che le praticano e il quantitativo globale di specie del clade, nonchè per svariati altri fattori, a quelle praticate da altre classi (uccelli, mammiferi).
L’interesse erpetologico verso l’ambito eto-ecologico è abbastanza recente, per lungo tempo l’intera classe Reptilia ha sofferto della diffusa credenza, solo in parte veritiera, che i rettili fossero animali primitivi e dalle capacità cognitive poco sviluppate. E ciò si è verificato in particolar modo per Serpentes; questo va a motivare ulteriormente la mancanza di studi approfonditi sullo specifico ambito delle cure parentali.
Nel corso degli anni si sono però accumulate osservazioni, più o meno autorevoli, di azioni e comportamenti che, successivamente analizzati, con metodo scientifico e nell’ambito di veri e propri studi, hanno portato a rivedere quanto pensato in precedenza, tanto che ad oggi la presenza di cure parentali in determinati taxa di ofidi è ritenuta, unilateralmente, un dato di fatto. (26)
Con il termine “cure parentali” andrebbero intesi tutti i comportamenti e le azioni, più o meno volontari/e, che uno o più esemplari adottano nei confronti della propria o dell’altrui prole, avvantaggiando, in maniera variabile e da punti di vista molteplici, quest’ultima.
Nell’ambito del Sottordine Serpentes, il ruolo della madre, nelle sue scelte e comportamenti, nel loro variare e in tutta la serie di prerogativa eto-ecologiche che la gestazione o il parto/deposizione portano alla luce, può dirsi regolato (16), bilanciato e profondamente influenzato da due concept, denominati ‘‘maternal manipulation hypothesis’’ (MMH; Shine, 1995) e ‘‘selfish mother hypothesis’’ (SMH; Schwarzkopf and Andrews, 2012), stando a quella che è l’interpretazione bio-comportamentale odierna più accreditata.
Per MMH si intende tutta quella serie di attività e comportamenti volontari delle femmine mirati a garantire la salute ottimale della prole, anche a discapito della propria; con SMH, invece, si indicano i comportamenti che favoreggiano la madre e sono volti ad ottimizzare il suo successo riproduttivo nel lungo periodo. Essendo questo il fine ultimo, talvolta ciò può ripercuotersi negativamente sulla prole stessa.
Un esempio molto classico che si può citare nell’ambito della MMH concerne la termoregolazione: è noto come le femmine gravide incrementino notevolmente il tempo dedicato al basking durante la gestazione, principalmente per una maggiore necessità fisiologica di Vitamina D3 (sintetizzata mediante l’esposizione ai raggi UVB), dovuta alla presenza delle uova (necessità di calcificazione) o degli embrioni (necessità fisiologiche di questi ultimi), ma anche per influenzare la termoregolazione degli embrioni stessi e far si che questi si sviluppino ad una temperatura per loro ottimale (Shine 2006).
In alcuni casi, la necessità di sostare presso i basking-spots arriva a sovrastare quella di autodifesa: questo è quanto ci conferma anche uno studio (14) effettuato su esemplari gravidi e non di Vipera aspis. Sono state monitorate le reazioni degli esemplari dinnanzi a minacce di attacco simulate, rivelando che le gravide tendono a non abbandonare i basking-spots, anche dinnanzi alla minaccia d’attacco, a differenza di quelle non gravide. Anche in differenti contesti, la logica di base rimane inalterata: le femmine non gravide, qualora un predatore subentri nella loro tana, la abbandonano, le gravide non lo fanno, mettendo quindi in secondo piano la loro stessa sopravvivenza rispetto a quella potenziale dei gestati.
Contestualizzando, invece, la selfish mother hypothesis con degli esempi, basti pensare ad un fenomeno che occorre in svariati taxa, ovvero il cannibalismo materno adattivo: le madri di molte specie animali, qualora si trovino, durante la gestazione, in condizioni non del tutto ottimali, o qualora un tal stato interessi la prole, si cibano di quest’ultima: essendo il successo riproduttivo (deposizione/parto) compromesso e non certo, la sopravvivenza della madre, da intendersi come riproduttore futuro, va a costituire il fine ultimo e indirettamente ciò si ripercuote, almeno in via potenziale, sulla salute della specie stessa.
MMH e SMH, per quanto, come visto, esplichino teorie antitetiche, in realtà si esprimono in concomitanza nel periodo di gestazione o di “cova”; anche riferendosi alle singole specie, non si può affermare che una data specie o taxon, fermo restando la comprovata esistenza di variazioni specie-specifiche o taxon-specifiche nelle modalità delle cure parentali, esprima maggiormente l’uno o l’altro concept, a differenza di quanto, in realtà, si tendeva a pensare fino ad una quindicina/ventina di anni fa.
Questa generale premessa va poi ad ampliarsi andando ad analizzare quali siano le peculiarità che contraddistinguono le varie famiglie relativamente al loro proprio modo di manifestare e sviluppare cure parentali.
Non si possono non citare, dapprima, i Viperidi (Viperidae): probabilmente è il clade presso il quale questo aspetto è stato più documentato e studiato.
Trattandosi per gran parte di specie vivipare, le cure parentali hanno luogo verso individui neonati, non verso le semplici uova (approfondiremo questo altro aspetto nel corso dell’articolo, relativamente ad altri taxa), anche se, comunque, in molte delle specie ovipare la femmina rimane presso il sito di deposizione
Gli studi veri e propri hanno avuto inizio negli anni ’90, per quanto questo comportamento fosse già stato notato, a vario titolo, su Viperidi in natura fin dalla metà del XIX° secolo.
Anche in questo caso svariati preconcetti, che hanno dipinto questi animali come indissolubilmente legati a definizioni del tutto umane (animali cattivi/malvagi che non possono essere in grado, quindi, di sviluppare comportamenti sociali), preconcetti assurdamente presenti anche fra accademici e studiosi vari, hanno costituito un enorme ostacolo al progresso scientifico.
Lo studio di Greene et all., del 2002, presente nella monumentale opera “Biology of The Vipers”, (4) va a rappresentare una pietra miliare: Greene e il team si concentrano su Viperidi ovipari ed ovovivipari di svariati generi, dimostrando come le cure parentali siano un carattere ubiquitario, presente in quasi tutti i Crotalinae(230 specie) e in alcuni Viperinae.

Con differenze specie specifiche le madri rimangono con la prole almeno fino a quando questa non ha effettuato la prima muta (che si verifica tendenzialmente dopo una decina di giorni dalla nascita) e, in certi casi, anche per un tempo più lungo. In questo lasso di tempo dimostrano una spiccata aggressività e una tendenza ad assumere pose difensive e/o di attacco molto più spiccata che in normali circostanze.
Nelle specie ovipare solite praticare cure parentali, ugualmente, la femmina rimane con le uova anche nei giorni successivi alla loro schiusa, fino alla prima muta dei neonati.
Sorprendente anche l’evidenza che, in taluni casi e qualora divisi, prole e madre siano poi propensi a ricongiungersi, mediante una sorta di riconoscimento (le cui modalità, cause e concause sono tutt’ora oggetto di approfondimento).
Emerge, ad ogni modo, l’importanza dell’evento della prima ecdisi, nel suo rapporto di interconnessione con le cure parentali. Tra l’altro, per quanto riguarda determinate specie i cui neonati effettuano la prima muta immediatamente dopo la nascita, si è visto come la madre abbandoni subito la prole, con nessuna evidenza di cure parentali.
La ghiandola tiroidea, la cui funzione, negli ofidi, è connessa all’evento di ecdisi, probabilmente influenza, con stimoli chimici e processi ancora non chiari, anche il comportamento delle madri nei confronti della prole.
I casi di aggregazione, invece, di più esemplari, nell’ambito del processo di cure parentali, sono meno frequenti, per quanto comunque documentati. In alcuni casi sono stati anche trovati, nel medesimo sito, giovani crotali di differenti cucciolate “accuditi” dalla medesima femmina.
Per quanto concerne le specie Crotalus molossus, C. rhodostoma e Ovophis monticola esistono report che pongono all’attenzione anche la presenza di esemplari maschi assieme alla femmina e alla relativa prole. In linea di massima, comunque, si è ipotizzato che la scarsa evidenza/assenza di cure biparentali possa essere connessa al fenomeno della “paternità multipla”. Il fenomeno si verifica in svariati taxa: le femmine, dopo essersi accoppiate con partners diversi, mediante ritenzione spermatica possono “scegliere” di servirsi del corredo genico di più partner all’interno della stessa schiusa/parto. Un’altra ipotesi relativamente alla mancanza di cure parentali paterne sostiene che queste avrebbero una utilità solo in caso di prole mobile ed attiva: non è il caso, appunto, dei Viperidi, i cui giovani rimangono, almeno fino alla prima muta, nei paraggi del sito di deposizione/nascita.
Interessante anche come le modalità di difesa della prole da parte della madre, che comunque tendenzialmente si limitano alla sola sua presenza o, al limite, alla manifestazione più acuta di atteggiamenti aggressivi dinnanzi a minacce esterne (test di laboratorio), possano variare, oltre che da specie a specie, anche in relazione al sito scelto per la deposizione/parto e ai predatori considerati “tipici” della specie in quell’areale.
Le cure parentali, oltre a svolgere una funzione di difesa nei confronti della prole, contribuiscono al mantenimento di condizioni igro-termatiche ottimali, sia che si parli di cure parentali verso neonati che verso uova, mediante la cova (il raggruppamento di più esemplari o la cova da parte della madre permette di disperdere meno velocemente calore e liquidi).
I nenoati di Crotalus horridus, secondo osservazioni sul campo, spesso seguono la madre nella sua migrazione verso il sito di brumazione, aspetto che costituisce un ulteriore indubbio vantaggio per i giovani (Reinert e Zappalorti, 1988).
Le femmine, durante la gestazione, in genere non si alimentano (le madri di C. molossus, in natura, trascorrono circa quattro mesi senza alimentarsi, anche dinnanzi a comprovati passaggi di prede). Tuttavia l’assunto è soggetto ad eccezioni.
Le pratiche parentali non incidono neanche sui ritmi riproduttivi dei Viperidi; singolare è invece quanto accade in alcuni Pitonidi (Liasis fuscus, aspetto approfondito in seguito nell’articolo), nei quali, qualora vengano praticate cure parentali, queste debilitano così ampiamente le femmine da far loro saltare una stagione riproduttiva.

Per ulteriori approfondimenti sull’etologia dei Viperidi si raccomanda caldamente la lettura di questo blog.
Come accennato, una qual sorta di cure parentali è osservabile anche nella famiglia dei Pitonidi (Pythonidae).
Tutti i Pitonidi sono ovipari, quindi, a differenza dei Viperidi, le cure parentali si limitano ad essere praticate nei confronti delle uova.
Tuttavia è doveroso precisare che esistono fattori (14) in grado di influenzare il corretto sviluppo degli embrioni durante la gestazione e quindi prima della deposizione (in particolare risulta critico il primo terzo di tempo di gestazione, quindi, in questa famiglia, un tempo grossomodo corrispondente ai primi dieci giorni di gestazione): una maggiore temperatura corporea della femmina gravida incrementa, da un lato, le condizioni di salute generale della prole e la percentuale di successo di schiusa delle future uova; da un altro lato riduce i tempi di gestazione (17) , cosa che parimenti parrebbe ripercuotersi sul fitness e sulla life-chance della prole (18). Dato che le femmine gravide effettuano basking più di frequente e in sessioni temporali più prolungate, nonchè sembra assumano più spesso una specifica posizione, (19) posizionando l’ultimo terzo del corpo a contatto con il suolo (più caldo), si può ritenere che anche queste pratiche (l’indotta variazione della temperatura corporea delle femmine gravide), nelle loro variazioni rispetto a quelle delle femmine non gravide, nella misura in cui, appunto, incidono sulla salute della prole, siano una qual sorta di cure parentali pre-deposizione o “embrionale” (14).
Il fenomeno delle cure parentali vere e proprie è stato documentato, per la prima volta, nel 1832 (anche in questo caso, preceduto da segnalazioni ed osservazioni di natura molteplice) dal naturalista francese Lamarre-Picquot, ai cui studi hanno fatto seguito quelli di Valenciennes (1841): entrambi gli accademici sostenevano di aver riscontrato un innalzamento della temperatura nei siti di deposizione di alcuni Pitonidi indiani, a loro parere motivata con “innalzamento termico provocato dalla femmina”. Tali tesi sono state dapprima osteggiate e si è dato loro poco credito.
Analoga sorte è toccata ai loro successori, Sclater e Forbes, che, rispettivamente venti e quarant’anni dopo, hanno riproposto la medesima teoria, con nuove ricerche. Bisognerà attendere il 1932 (esattamente un secolo dopo il primo report) e gli studi di Benedict at all (12)., i quali dimostreranno che effettivamente le femmine, mediante contrazioni muscolari (shivering) sono in grado di innalzare la temperatura all’interno del sito di deposizione. Nel caso, comunque, in cui la temperatura del sito sia già abbastanza elevata, le femmine non effettuano shivering, ma la loro presenza contribuisce a ridurre la perdita di liquidi e a preservare un’idonea percentuale di umidità (13)
Tendenzialmente in questa famiglia la “cova” non implica un dispendio energetico tale da avere conseguenze rilevanti sulla salute della femmina: studi effettuati (13) hanno dimostrato come le femmine di Python regius, ad esempio, subiscano un calo del peso corporeo pari a meno del 6% durante i due mesi in cui covano le proprie uova. Non vi è, inoltre, una relazione fra il calo di peso e la dimensione delle uova o il numero di queste, contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare.
Una importante eccezione a questo è però rappresentata da Liasis fuscus: le femmine, qualora rimangano presso il sito di deposizione e siano impegnate nella cova, saltano una stagione riproduttiva, probabilmente essendo eccessivamente debilitate, al contrario di quelle che (non solo nella stessa specie, addirittura nella stessa popolazione localizzata) non manifestano cure parentali.
Nel 1999 Madsen e Shine (18) ci rivelano come le femmine di Liasis fuscus di una stessa popolazione scelgano, come siti per deporre, due tipologie di ambiente: le cavità fra le radici/i tronchi caduti degli alberi oppure le gallerie sotterranee scavate dai varani.
Indubbiamente, per tutti i rettili, la scelta del sito di deposizione non è casuale ed è effettuata tenendo conto dei corretti parametri, per le varie specie, di temperatura ed umidità di cui le uova o la femmina gravida necessitano.
In questo caso, il primo tipo di ambiente fornisce da un lato una maggiore protezione dai predatori, dall’altro non consente il mantenimento di temperatura ed umidità costanti. Le gallerie dei varani, al contrario, costituiscono una scelta più rischiosa in relazione al maggior rischio di predazione ma forniscono un isolamento termico maggiore. Conseguenzialmente a questo è stato riscontrato che le femmine che depongono fra le radici o i tronchi sono solite “covare” le uova, con annesso fenomeno di shivering, mentre le madri che optano per le gallerie abbandonano le uova subito dopo la deposizione.
Questa discrimine porta ad ipotizzare un ruolo estremamente attivo della madre, che sceglie in base all’esigenza se rimanere o meno presso le uova: trattandosi della stessa popolazione, quindi, l’assenza o presenza di cure parentali non è legata, almeno in questo caso (generalizzare sarebbe una forzatura) a differenze genetiche/filogenetiche fra gli esemplari oggetto d’esame.

Fra gli aspetti più sorprendenti notati relativamente alle cure parentali nei Pitonidi vi è indubbiamente il fatto che le madri possano “covare” anche uova deposte da altre femmine ed, addirittura, talune rocce, presenti nei siti di deposizione, che rassomigliano per forma e dimensione alle loro uova. (15)
Sorprendente è, inoltre, il comportamento delle femmine di Cobra reale (Ophiophagus hannah) che costruiscono veri e propri nidi (22) in cui deporre e presso i quali, talvolta ma non sempre, rimangono in atteggiamento di “cova”. Va precisato che anche da parte di altri “cobra” (i veri cobra del genere Naja, essendo gli O. hannah filogeneticamente un taxon a se stante) sono state notate pratiche simili, per quanto questi ofidi si limitino ad utilizzare, o al massimo ad ingrandire, nidi e gallerie edificati da altri animali.

Il fenomeno della costruzione di nidi da parte dei cobra reali è stato documentato, per la prima volta, nel 1892 (23), osservando la specie in natura; studi più dettagliati hanno avuto inizio, invece, presso lo Zoo del Bronx, negli anni ’50, culminando in pubblicazioni datate 1969.
La costruzione di questi nidi si rivela impegnativa, sorprendentemente complessa e in generale sbalorditiva, sia perchè le madri trascinano e spostano il materiale di cui necessitano contraendo il proprio corpo, con movimenti serpentiformi ad hoc, sia perchè pare che non si limitino ad utilizzare tronchi, rami, foglie e quant’altro possa essere naturalmente presente nelle loro vicinanze, ma invece scelgono alcune particolari specie di bamboo, in particolare Dendrocalamus longispathus e Bambusa longispiculata, che sono tutt’altro che comuni presso i loro habitat (addirittura è stato notato che bamboo, però appartenenti ad altre specie, non vengono utilizzati) intraprendendo quindi una ricerca delle zone ove cresce tale bamboo, con annessa selezione dei materiali idonei.
I nidi vengono costruiti solo ai margini di foreste della succitata tipologia, spesso inglobando, nella struttura, uno o due alberi (accorgimento che conferisce maggiore stabilità): i nidi si sviluppano in pendenza, il che evita che le piogge possano provocare degli allagamenti (24)
Stando alle osservazioni sul campo (24), una conditio sine qua non ulteriore relativamente alla scelta dalle location idonea sembrerebbe essere la presenza di un corso d’acqua: i record non indicano la presenza di nidi oltre i 300 m di distanza da torrenti o corsi d’acqua più o meno perenni (ma comunque con presenza di acqua durante la stagione riproduttiva).

Si può dividere la struttura del nido in tre aree: superficie esterna, superficie intermedia e camera di deposizione. In realtà, in taluni casi, sono presenti da due ambienti/camere interne, uno situato ad una profondità maggiore, ove la femmina depone le uova, e un altro più superficiale, presso il quale sosta la madre (rivelando in tale fase, secondo alcuni autori, un atteggiamento più aggressivo rispetto agli standard della specie). (24) (25)
La superficie esterna è costituita prettamente da foglie secche di bamboo, raggruppate in modo tale da produrre una struttura a forma di cupola. Pare che gli eventi atmosferici, pioggia in primis, contribuiscano, nel tempo, a conferire maggiore compattezza a questa superficie, la quale isola termo-igrometricamente le altre aree dall’esterno.
La superficie intermedia dei nidi è composta, invece, da foglie marcescenti, la cui decomposizione concorre a produrre una temperatura idonea presso la camera di deposizione, nonchè, anche in questo caso, a mantenere la giusta percentuale di umidità.
La/le camera/e di deposizione, infine, sono cavità grandi abbastanza da contenere un numero adeguato di uova (fino a 50) e vengono edificate in prossimità della sommità della struttura.

Dinamiche sociali riproduttive, mating balls e self-rubbing behaviour
Le dinamiche riproduttive della subfamiglia Natricinae sono probabilmente, nell’ambito delle dinamiche sociali in generale tipiche degli ofidi, l’aspetto che più è stato approfondito, sia a livello erpetofilo che strettamente erpetologico, nel corso degli anni.
E’ facile poter osservare, durante la stagione riproduttiva, le loro “mating balls”, ovvero grovigli di più maschi attorno ad un’unica femmina, in particolare da parte del genere americano Thamnophis (numerosissimi sono gli studi condotti sulla specie Thamnophis sirtalis parietalis ).

La stagione riproduttiva ha inizio, in questo clade, subito dopo l’inverno (tra l’altro, T. s. parietalis è la prima specie per la quale si ha scientifica dimostrazione dell’influenza esercitata della ghiandola pineale, piuttosto che dalle variazioni del fotoperiodo, sul ciclo riproduttivo (27) ) e la sua durata è di circa 3 settimane.
Nella stagione riproduttiva i maschi sono focalizzati in maniera esclusiva e totalitaria sul corteggiamento e sul tentativo di riprodursi: smettono di alimentarsi e assumono un comportamento meno aggressivo rispetto allo standard della specie; addirittura arrivano a tentare l’accoppiamento con le carcasse delle femmine. (29) (28)
I maschi terminano il periodo di brumazione prima delle femmine e solitamente il rapporto maschi/femmine riscontrato nelle mating balls è di 20-30:1 (ma vi sono casi documentati in cui i maschi superano il centinaio) (28). Studi effettuati sempre su T. s. parietalis hanno evidenziato come il corteggiamento da parte del maschio sia più attivo ed intenso proporzionalmente alla presenza di più maschi; inoltre il corteggiamento da parte del singolo maschio non diventa più intenso quanto più intenso è il corteggiamento praticato dagli altri conspecifici: basta la sola loro presenza a produrre l’incremento di attività. Le mating balls non sono quindi, raggruppamenti casuali di più esemplari, ma costituiscono in se per se un’espressione della dinamica riproduttiva (28).
Non è eccessivo affermare, dunque, che questi ofidi siano attratti non solo dalla femmina, ma dai maschi stessi; tra l’altro sono state osservate mating balls createsi senza la presenza della femmina (Aleksiuk & Gregory, 1974; Mason & Crews, 1985). L’incremento dell’attività di corteggiamento in proporzione alla presenza di più maschi non ha, almeno come causa primaria, la competizione fra maschi (altrimenti gli studi effettuati avrebbero evidenziato l’aumento delle pratiche di corteggiamento in relazione all’aumento dei tentativi di corteggiamento dei maschi e non in relazione alla loro sola presenza). Tra l’altro i maschi delle mating balls non si rivelano essere aggressivi e/o competitivi fra loro durante la pratica, a differenza di quanto accade presso altri taxa, che parimenti sono caratterizzati da fenomeni di aggregazione di più esemplari durante il periodo riproduttivo e manifestano vere e proprie gerarchie di dominanza.
Diviene spontaneo chiedersi come mai si formino tali aggregazioni e quale possa essere il loro scopo. Le mating balls, per il singolo maschio, sono indubbiamente più visibili rispetto a quanto potrebbe esserlo un singolo esemplare femmina, laddove per “visibile” si intende più che altro intercettabile, sia a livello strettamente visivo, sia a livello chimico, per quanto sia comunque assodato che le femmine di questo clade lascino tracce chimico-olfattive (estrogeni) potenzialmente captabili dai maschi (30). Tale assunto si rafforza considerando anche che la stagione riproduttiva di tali ofidi è, come detto, di durata molto breve.
Studi (31) condotti sempre su questa specie ci rivelano che le pratiche sociali, in particolare quelle di aggregazione, sono mediate ed influenzate da chemorecettori e ghiandole vomero-nasali, come d’altronde avviene anche in altri taxa, vedasi gli Scolecophidia e gli Psammophiinae.
Proprio gli Psammophiinae, subfamiglia dei Lamprophidae comprendente otto generi, tutti localizzati nell’ Ecozona paleartica, vanno a costituire un clade di enorme interesse eco-etologico. Molto singolare ed unico tra gli ofidi, almeno stando alle attuali conoscenze, è la pratica che prende il nome di self-rubbing behaviour (De Haan 1999, 2003) (38): come anticipato, tutta la subfamiglia è dotata di particolari ghiandole vomero-nasali il cui secreto, prettamente lipidico, viene cosparso dall’ofide stesso sul proprio corpo (addome e fianchi).

Le modalità in cui questo avviene e nello specifico il pattern del movimento praticato dallo Psammophiinae durante l’atto variano in funzione dell’ecologia della specie (37): nelle specie terricole il pattern di movimento ricorda una “M”, in quelle arboricole/semi-arboricole una “P”. Si è in passato ritenuto che tale pratica avesse lo scopo di arginare la perdita di liquidi corporei, prevenendo quindi la disidratazione (36) , tuttavia la scuola di pensiero ad oggi più accreditata smentisce questa teoria, motivando la pratica con ragioni, appunto, di natura etologica ( De Hann 2003, De Haan and Cluchier 2006) (38): il secreto servirebbe a marcare il territorio e, in generale, avrebbe funzioni, non ancora del tutto comprese, nei rapporti con i conspecifici. Facile comprendere come, distribuendo il secreto su una ampia superficie, per giunta mobile (corpo dell’ofide) la traccia olfattiva possa essere più efficacemente individuabile rispetto ad un ipotetico scenario in cui il serpente si limiti alla sola produzione del secreto, marcando direttamente rocce o materiali a se limitrofi. La pratica è stata documentata in individui adulti come nei giovani (il self-rubbing behaviour è stato descritto in un esemplare di appena sette giorni di Psammophis sibilans). Questo comportamento è stato osservato prettamente in natura, per quanto ci siano anche casi documentati della pratica nell’ambito dell’allevamento in cattività.
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