La subfamiglia Psammophiinae (Serpentes, Colubridae): biologia, eto-ecologia e relazioni filogenetiche, con un approfondimento su Malpolon sp.
a cura di Laura Ricci & Mirko Galuppi
Forse nessun altro taxon, almeno fra gli ofidi, rivela tante sorprendenti caratteristiche come quello degli Psammophiinae. In particolare la loro etologia, unita a tutte le altre uniche prerogative di questi serpenti, li rende oggetto di studio appassionato da parte di erpetologi/erpetofili e animali ricercati, in terraristica, da una cerchia di estimatori. Marcatura del territorio e relazioni “sociali” con i conspecifici, morfologia sviluppata ad hoc per l’attività diurna e un’anatomia tutta particolare sono solo alcune delle peculiarità di questa subfamiglia che raggruppa al suo interno quelli che, a detta di chiunque abbia avuto modo di approfondirne la conoscenza, sono serpenti “con una marcia in più”.

Psammophiinae: tassonomia, filogenesi e distribuzione
Gli Psammophiinae sono una subfamiglia di Lamprofidi (famiglia Lamprophiidae), allo stato attuale comprendente otto generi (Dipsina, Hemirhagerrhis, Malpolon, Mimophis, Psammophis, Psammophylax, Rhagerhis, Rhamphiophis) (1)(13) . La maggior parte delle specie sono comprese nel genus Psammophis, che in realtà è uno dei taxa africani più problematici dal punto di vista filo-genetico ed evolutivo e che certamente necessiterebbe di ulteriori studi mirati (5).
Si tratta di colubridi opistoglifi dal corpo slanciato e dalla coda molto lunga, con una testa ben distinta dal tronco e occhi di grandi dimensioni (6)(7)(13).
Inizialmente questi ofidi venivano considerati una famiglia a se, gli Psammophiidae, ma grazie ad analisi genetiche (2)(3)(4)(5) che hanno investigato sulle relazioni esistenti all’interno della famiglia Lamprophiidae, sono ad oggi considerati un clade a se stante della maggior parte degli autori anche se, per via delle loro svariate peculiarità, che verranno trattate nel corso di questo articolo, vi sono comunque sostenitori di un loro status di famiglia.
Questi serpenti sono originari dell’Africa e da lì hanno iniziato a diversificarsi e ad espandere il loro range distributivo: il genere Malpolon è l’unico ad essere presente anche in Europa meridionale, alcune specie di Psammophis arrivano invece a popolare aree dell’Asia centrale; Rhagheris moilensis (genus monospecifico, ex Malpolon moilensis) si rinviene anche nell’Asia sud-occidentale mentre il genere Mimophis è un endemismo malgascio (6) (7) (8) (9) (10) (11) (13).

Alcuni autori, considerando le affinità morfologiche ed ecologiche che questi serpenti hanno con altri taxa, per quanto con essi non vi siano correlazioni filogenetiche, parlano di convergenza evolutiva, riferendosi ai generi Coluber (considerato, più che altro, secondo una ormai obsoleta classificazione tassonomica e non considerando gli splittamenti che il genus ha subito negli ultimi anni) Demansia e Masticophis, che popolano rispettivamente Europa ed Asia, Australia e Nord America (13) (16) (6).


Caratteristiche degli Psammophiinae
Molti sono i caratteri distintivi di questa subfamiglia: riferendoci ad essa nella sua totalità, trattiamone prima quelli sinapomorfi (ovvero, quei caratteri nuovi e propri di tutta la subfamiglia) e successivamente quelli autapomorfi (riscontrabili nelle singole specie o comunque solo in alcuni Psammophiinae). La caratteristica forse più singolare è costituita dalle narici valvolari: si tratta di aperture presenti sulle squame loreali che secernono una particolare sostanza, prettamente lipidica (un mix di acidi grassi, proteine, sodio, potassio e acqua) a sua volta prodotta da due speciali ghiandole nasali. A questo proposito si noti come la struttura di tali ghiandole, che si potrebbe pensare simile a quella delle ghiandole atte alla secrezione di sali, presenti in altri taxa (la caratteristica è piuttosto nota in Amblyrhynchus cristatus e alcuni Hydrophiinae), riveli invece una differente struttura (12) (13) (14) (11) (15) (16)(18). Il secreto viene cosparso dagli Psammophiinae, mediante ritmici movimenti del capo, sul proprio corpo ma anche su oggetti e su altri conspecifici. Osservazioni e studi effettuati su esemplari detenuti in cattività hanno permesso di notare maschi che marcano la femmina o esemplari che depositano il secreto sugli arredi del terrario. Questo sorprendente comportamento viene detto self-rubbing behaviour (o rubbing), grooming o ancora polishing (a questo link un video). La sua funzione non è ancora chiara e si tratta certamente di una delle tematiche che più interessano studiosi ed estimatori di questi ofidi e intorno alla quale tutt’oggi si dibatte (12) (13) (14) (11) (15) (16) (18) ( ) ( ) ( ) ( ).

Alcuni autori (Darevsky, 1956; Dunson et al., 1978; Branch, 1988; Lahav and Dmi’el, 1996; Green et al., 1997; Weldon et al., 2008, De Pury, 2010) hanno ipotizzato che il secreto serva a prevenire la perdita di liquidi, andando a formare una sorta di patina protettiva, in virtù della sua composizione. Ciò parrebbe ragionevole considerando le temperature particolarmente elevate che si registrano negli habitat popolati da molte specie di questo clade (12) (13) (15) (22) (23) (24). Tuttavia tale teoria è stata lungamente contestata da un’altra scuola di pensiero più recente (Brandstatter, 1995, De Haan & Cluchier, 2006, Steehouder, 2014) che invece sostiene fermamente il ruolo socio-comunicativo del comportamento, affermando che la sostanza prodotta serva a marcare il territorio dei singoli esemplari e le zone di caccia e che, in generale, serva a depositare tracce chimico-olfattive indirizzate ai conspecifici o anche ad altre specie (19) (20) (21).
Si è notato, sia mediante osservazioni sul campo e in ambiente controllato sia nell’ambito di veri e propri studi, come la frequenza del self-rubbing sia maggiore in condizioni di scarsa umidità e minore con umidità elevata (12). Ciò ha spinto molti a considerare inequivocabilmente questo dato a sostegno dell’ipotesi che vede il self-rubbing come una misura per arginare la disidratazione. Tuttavia, fanno notare altri autori, l’evaporazione dei liquidi conseguenziale ad un clima arido implica anche una più rapida evaporazione del secreto, e ciò potrebbe portare gli Psammophiinae a dover praticare self-rubbing più spesso solo affinchè il secreto abbia modo di rimanere sul loro corpo/su quello che marcano per un tempo sufficiente (21).
Vi sono dati controversi, o meglio loro controverse interpretazioni, differenti a seconda della visione degli autori favorevoli alla concezione “sociale” del self-rubbing o avversi ad essa. Ad esempio, si noti come analisi fitologiche delle squame dorsali e laterali di alcuni Psammophiinae abbiano evidenziato come esse siano di per se protette da una sostanza “cerosa” e lipidica, sostanza che, citando lo studio, va a formare dei micro-ornamenti. Il paper che menziona questo (25) afferma che tale sostanza sarebbe prodotta da piccoli pori, situati fra le squame stesse. Si potrebbe, quindi, dedurre che un’ulteriore protezione del corpo del serpente sarebbe inutile, tuttavia, successivi studi, che pur fanno riferimento al testo succitato, affermano di contro che la sostanza sarebbe prodotta dalle ghiandole nasali e cosparsa dall’ofide sul proprio corpo mediante self-rubbing (12) (13) (21). In realtà, nel testo originale, non si prende (giustamente) una posizione definitiva su quale possa essere lo scopo di tali micro-ornamenti, viene anche ipotizzato che possano aiutare l’ofide durante la muta oppure che possano renderlo più veloce.
Un successivo studio del medesimo autore, che paragona i micro-ornamenti a quelli presenti sulla superficie delle ali dei Lepidotteri, ci rivela come la luce, riflessa da questa sostanza lipidica sulle squame, crei particolari giochi di luce. Ipotizza inoltre che i micro-ornamenti possano avere un ruolo nella protezione dai raggi UV o che servano da immagazzinatore foto-termico (21).
Comunque, la struttura dei micro-ornamenti differisce a seconda delle specie, con modalità che evidenziano come, in quei taxa che popolano zone più aride, la trama che i micro-ornamenti vanno a formare sia più fitta e densa (21).
E’ interessante notare come il movimento della testa dell’ofide, durante questa pratica, e il “percorso” che esso descrive sul proprio corpo, varino a seconda delle specie ed in particolare è stato notato che i taxa dalle abitudini arboricole e semi-arboricole perpetrano un tipo di moto che pare disegnare una “P”, mentre nelle specie terricole il disegno cambia andando a formare una “M”. Non vi sono dati o osservazioni relative al self-rubbing in tutte le specie di Psammophiinae, tuttavia tipico del genus Psammophis è il movimento a P; nei generi Malpolon, Rhagheris, Mimophis, Psammophylax e Rhamphiophis osserviamo invece il movimento ad M (11).

manifestato subito dopo essere stato spostato nel nuovo alloggio ©Laura Ricci
Altra sinapomorfia degli Psammophiinae è la loro particolare morfologia degli emipeni, che si presentano molto piccoli, sottili, filiformi, rispetto alla maggior parte dei colubridi e degli ofidi in generale (prerogativa che rende difficile determinare il sesso degli esemplari, tranne per quelle specie che presentano uno spiccato dimorfismo sessuale).

Alcune specie (se ne è notata, ad oggi, la presenza in Malpolon monspessulanus e M. insignitus, varie specie del genus Psammophis, Psammophylax rombeatus, Rhamphiophis rubropunctatus, Dromophis lineatus) possiedono delle depressioni sulle squame parietali, denominate parietal pits (29)(39)(31)(32). Anche per quanto concerne questo carattere non vi sono interpretazioni definitive su quale possa essere la sua funzione. Singolare come esse non siano presenti in tutti gli esemplari, nell’ambito delle specie presso le quali ne è stata descritta la presenza. Cosa che, d’altronde, si verifica anche per quanto riguarda le apical pits (26)(6)(28) anch’esse depressioni, situate all’apice delle squame dorsali di svariate specie di ofidi, il cui ruolo non è del tutto chiaro (anche se paiono essere termo-meccano recettori). Altro aspetto ancora nebuloso è il fatto che le parietal pits siano visibili solo in determinate circostanze e fasi della vita del serpente. Possono, comunque, essere notate anche sulle exuvie. Un paper del 2006 (33) riporta come sia presente un’analoga struttura anche in Atretium schistosum, un colubride originario del Sudest asiatico. In realtà, in molte specie di ofidi sono presenti dei “pits”, in alcuni casi sovrastati da tubercoli. Tuttavia le speciali strutture presenti negli Psammophiinae sono particolarmente profonde e di dimensioni maggiori. Si ritiene possano avere un ruolo, appunto, analogo a quello delle apical pits, ovvero che possano essere sensori meccanici e termici, tuttavia l’argomento necessiterebbe di maggiori studi (30). E’ comunque interessante notare come la zona temporale del cranio di molte specie di rettili sia interessata da diversificati organi e strutture, che spesso hanno un ruolo attivo nel bioritmo degli esemplari e nella loro percezione del ciclo circadiano. L’ambito è stato indubbiamente più trattato per quanto concerne sauri e soprattutto Sfenodontidi: in questi ultimi riscontriamo un occhio pineale, un fotorecettore, strutturato in maniera analoga ad un vero e proprio occhio e quindi dotato di una lente, di una cornea e di una retina e internamente connesso, mediante i nervi pineali, alla ghiandola pineale situata nel cervello: è in questa sede che si ha la produzione di melatonina, l’ormone responsabile della regolazione di molti ritmi fisiologici (sonno, ciclo riproduttivo, ibernazione) e del suddetto ritmo circadiano (35) (36) (37) (38) (39) (40 (41). Nei sauri queste strutture sono meno complesse, per quanto, in alcuni taxa, rassomiglino a quelle presenti nei tuatara, in particolare in animali dall’ecologia diurna come Iguanidae, Agamidae, Varanidae, Cordylidae e Shinisauridae ed è ipotizzabile che anche in Serpentes si possano riscontrare, per quanto presenti in una modalità sicuramente più rudimentale. Ad esempio, in molte specie e in particolare in alcuni Crotalinae, le squame parietali presentano delle aree pigmentate diversamente dal resto della squama, più scure: questo ne ha fatto ipotizzare la funzione fotoricettrice. Inoltre, molti Elapidi, Viperidi e anche alcuni Colubridi, presentano, in fase giovanile, dei veri e propri foramina parietali, simili a quelli dei sauri, che tuttavia scompaiono con la crescita e l’accrescimento della struttura cranica (42).

Interessante anche notare come in alcuni Psammophiinae sia stata notata l’autotomia della coda, strategia anti-predatoria in genere riscontrabile in alcuni sauri (ma registrata anche in Xenocrophis piscator, un Natricinae diffuso nel Sud-Est asiatico) (43)(44). Tuttavia, alcuni autori (45) preferiscono definirla pseudo-autotomia, poiché non vi sono i presupposti per una rigenerazione cellulare. Altri interpretano la lunghezza delle code di questi serpenti di per se come un’agevolazione contro i predatori: una coda più lunga (e sottile) è conseguenzialmente più fragile e una sua rottura, soprattutto considerando che la parte terminale continua a muoversi, può facilmente distrarre eventuali predatori.
Il veleno degli Psammophiinae
Questi ofidi presentano una dentatura opistoglifa: i denti veleniferi, scanalati, sono situati posteriormente nel mascellare superiore; la ghiandola di Duvernoy, o ghiandola velenifera, secerne il veleno che, tuttavia, a differenza di quanto accade in proteroglifi e solenoglifi, non trova un sistema atto ad essere inoculato (tuttavia, la scanalatura dei denti ha lo scopo di creare lacerazioni nella preda e quindi di permettere una più efficace penetrazione del veleno). In linea di massima si può affermare che il loro veleno non sia pericoloso per l’uomo, tuttavia si annoverano alcuni casi di avvelenamento con conseguenze di media entità (54)(46)(47). Le ghiandole velenifere degli Psammophiinae sono comunque di grandi dimensioni, paragonate a quelle di altri colubridi e, in alcune specie in particolare, come Rhamphiophis oxyrhynchus, (48)(53) i denti veleniferi sono piuttosto grandi e molto mobili. Senza volersi dilungare sul dibattito che, negli ultimi anni, è in atto relativamente alla definizione/ridefinizione del concetto di “velenoso”, che ha implicato inoltre tutta una serie di studi sulla composizione e sugli effetti del veleno dei serpenti opistoglifi, va sottolineata l’importanza di approcciarsi con cautela a qualunque taxon velenoso (e quindi anche ai colubridi opistoglifi), anche perché ogni morso, per una serie di fattori, costituisce sempre un caso a se (27)(54)(55)(56)(57)(58(59). Soprattutto se si considera che gli Psammophiinae annoverano, fra le loro risorse trofiche, anche mammiferi e quindi il loro veleno, per ragioni evolutive, si dimostra abbastanza attivo proprio nei confronti di questa classe, a differenza di quello che si verifica per altri colubridi opistoglifi il cui target di prede è costituito da uccelli o rettili. Questo sembrerebbe vero in particolare per gli esemplari adulti, la cui dieta, in natura, devia maggiormente verso mammiferi (ricordiamo che la composizione del veleno è potenzialmente variabile anche all’interno della stessa specie e si modifica in rapporto all’età e alla conseguenziale differenza di prede consumate, tant’è che si può parlare di “ontogenesi del veleno”) (54)(55)(60).

Va precisato che, nell’uomo, le conseguenze più significative dovute ad avvelenamento si sono riscontrate generalmente in casi in cui gli ofidi hanno avuto modo di mordere continuativamente per minuti. Sono riportati casi di arrossamento, edema, emorragie a livello della zona interessata dal morso e, molto più raramente, lievi effetti neurotossici (49)(50)(51). Il discorso andrebbe affrontato specie per specie, tuttavia si fa particolarmente sentire la carenza di dati e la stessa composizione del veleno non è nota per tutti i taxa.
Intressante uno studio (47) su Rhamphiophis oxyrhynchus: fra le component del suo veleno vi sarebbe una proteina, la rufotossina, che andrebbe ad interferire con i recettori postsinaptici, studio interessante anche perché ha permesso di chiarire alcuni aspetti della storia evolutiva della tossina stessa.
Anche il veleno del genus Malpolon, che causa conseguenze prettamente emorragiche e raramente neurotossiche, è stato analizzato (51), testandone gli effetti su topi.
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