Storie di anfibi e rettili che sfidano i limiti di sopravvivenza. Dai deserti fino al Circolo Polare Artico, un viaggio attraverso le strategie e le specializzazioni che hanno consentito ad animali a sangue freddo di colonizzare gli ambienti più inospitali del pianeta.
A cura di Giulia Raissa Agnolon
- Nel mezzo del deserto
Abitare nei luoghi più aridi e caldi della Terra significa dover affrontare ogni giorno una lotta per la sopravvivenza: le risorse essenziali come cibo e acqua sono limitate e le elevate temperature non ne favoriscono di certo una ricerca attiva. Solo gli organismi meglio adattati possono vivere e proliferare in questi ambienti ostili.
Il Deserto del Namib ospita alcuni dei più efficienti maestri di sopravvivenza, ognuno dotato di una propria strategia. Chamaeleo namaquensis si affida al metacromatismo: ogni giorno, al sorgere del sole, assume una colorazione nera per attirare a sé i raggi solari e riscaldarsi in breve tempo, non appena ha raggiunto la temperatura ideale attua la strategia opposta, virando verso una colorazione bianca che riflette la radiazione, evitando così il surriscaldamento.

Bitis peringueyi per fuggire al sole cocente si interra negli strati più freschi della sabbia, ma lascia esposti in superficie solo narici e occhi, che invece di essere posizionati ai lati della testa, come di norma negli ofidi, sono posti superiormente e ravvicinati tra loro; caratteristica che consente al viperide di sotterrarsi quasi totalmente. Un grande vantaggio sia nella termoregolazione che nella predazione. Questa vipera ha inoltre un particolare tipo di locomozione: attraversa le dune sabbiose con un movimento laterale, assumendo una posizione che gli consente di avere solo il 50% del corpo che poggia sulla sabbia bollente.

Una strategia affine la vediamo in un altro abitante del Deserto del Namib, Meroles anchietae, anche chiamato lucertola dal muso a spatola, ma la sua particolarità non risiede nel suo naso all’insù, piuttosto in un suo peculiare comportamento: quando staziona sulla sabbia alza da terra due zampe alla volta per raffreddarle. Un modo molto buffo, ma altrettanto efficiente, di limitare la superficie corporea a contatto con il substrato caldo.

Spostandoci nelle aree desertiche dell’Australia troviamo il Moloch horridus, un vero e proprio concentrato di adattamenti. Allo scopo di risparmiare energie questa lucertola si muove poco durante il giorno e, quando lo fa, lo fa molto lentamente. Non è un predatore attivo, preferisce attendere che il suo pasto gli si presenti davanti, tanto che un esemplare, di media, non si sposta per più di 80 metri al giorno. Analogamente, non sono animali che fuggono in caso di incontro con un predatore, non ne sarebbero in grado; bensì fanno affidamento al mimetismo e alla stanzialità per non farsi notare. Le loro squame sono inoltre modificate in spine, rendendoli un difficile boccone per il potenziale predatore. Il nome di diavolo spinoso è sicuramente meritato, specialmente se notiamo che possiede due strutture molto simili a delle corna. Si tratta di escrescenze spinose al cui interno è presente una massa ossea, che in realtà hanno lo scopo di fungere da “falsa testa”: quando minacciato da un predatore, Moloch horridus abbassa il capo ed infila la sua vera testa tra le zampe, esponendo piuttosto la falsa testa, in grado di incassare i colpi dell’avversario.

Se questi adattamenti vi sembrano già strabilianti, vi avviso che siamo solo all’inizio.
Per quanto concerne la sua alimentazione, il Moloch è un mirmecofago obbligato: si ciba solo ed esclusivamente di formiche per cui è dotato di un apparato boccale altamente specializzato. La sua lingua adesiva è uno strumento indispensabile nella cattura delle prede, ma il maggiore adattamento risiede nella dentatura. Le formiche sono insetti molto coriacei che contengono alti livelli di chitina, ma per il Moloch questo non è affatto un problema: i suoi denti mandibolari sono strutturati per incastrarsi perfettamente tra i denti mascellari, creando un apparato di taglio, efficacissimo nel triturare l’esoscheletro chitinoso, e favorirne quindi la successiva digestione. Di contro, le formiche non sono insetti molto nutrienti, questo significa che il Moloch deve mangiarne un’elevata quantità, si stima infatti che si nutra di oltre 750 formiche al giorno.
L’elevata specializzazione del suo apparato boccale lo rende però incapace di bere in maniera diretta. La natura lo ha in compenso dotato di una incredibile alternativa: la superficie della pelle del Moloch horridus è microstrutturata, con canali tra le squame embricate che consentono di raccogliere l’acqua per capillarità e di trasportarla passivamente alla bocca per l’ingestione. Poiché la cute dei sauri deserticoli è impermeabile (al fine di minimizzare la perdita di acqua per evaporazione) l’assorbimento attraverso la pelle è precluso, ed il trasporto idrico alla bocca è un requisito fisiologicamente essenziale.
Negli studi morfologici i canali tra le squame sono risultati avere una larghezza di 250-100 μm nella loro parte basale, ma con aperture più strette in superficie, di 150-100 μm. Questi, che possono sembrare solo numeri, sono in realtà il segreto dell’efficiente sistema di trasporto idrico cutaneo del Moloch. La struttura gerarchica dei canali, organizzata in capillari più piccoli all’interno dei canali principali, consente la creazione di un equilibrio tra forza capillare e forza gravitazionale che permette il trasporto verticale dell’acqua, contro gravità, per una distanza relativamente elevata.
Questi sauri hanno effettivamente trasformato l’intera superficie della loro pelle in una cannuccia, tanto che, grazie a questo super-adattamento, non necessitano di vere e proprie fonti di acqua, ma riescono ad abbeverarsi indirettamente da sabbia umida avente un contenuto idrico del 22%.
Questi spinosi agamidi australiani sono stati ampiamente confrontati e paragonati con le specie di Phrynosoma (famiglia Phrynosomatidae) presenti in Nord America; le notevoli somiglianze adattative tra questi due sauri, abitanti continenti diversi e appartenenti a famiglie diverse, sono uno splendido esempio di evoluzione convergente.

Parlando di deserti non possiamo non citare Scaphiopus couchii, noto come rospo dai piedi a vanga, un anfibio anuro che abita nel Deserto di Sonora (Arizona, Messico). Tipica scena da vecchio film western: una landa arida e desolata, in cui sembra non esserci anima viva, e nulla si muove, se non quel solitario cespuglietto che attraversa la scena rotolando spinto dal vento (Salsola tragus). Temerario, il rospo di Couch abita queste terre. Se già consideriamo difficile la vita di rettili nei deserti, ancora più incredibile è la presenza di popolazioni di anfibi, la cui pelle estremamente sottile e permeabile, li rende particolarmente esigenti sui parametri climatici; per non parlare della loro riproduzione, indispensabilmente legata all’ambiente acquatico.
Nel deserto di Sonora non ci sono precipitazioni per la maggior parte dell’anno, ed in assenza del necessario tasso di umidità S. couchii non può vivere in superficie; affronta quindi i numerosi mesi di siccità nel sottosuolo. Ottimo scavatore, degno del suo nome, utilizza le zampe posteriori come una vanga per sotterrarsi fino a 20 cm sotto terra.
Durante le precipitazioni estive, stimolato dalle vibrazioni a bassa frequenza prodotte dai tuoni e dal battere della pioggia al suolo, il rospo emerge dal suo rifugio sotterraneo. Ma le piogge durano poco e non c’è tempo da perdere; i maschi cercano subito una pozza e cantano vigorosamente per richiamare le femmine, le quali deporranno diverse migliaia di uova a testa. Una volta deposte, le uova devono schiudersi rapidamente prima del disseccamento delle pozze: a temperature dell’acqua di 30 °C, le uova si schiudono in 15 ore. Un record assoluto. Anche i girini devono metamorfosare in fretta e nel giro di 9-14 giorni sono già dei piccoli rospi, pronti ad affrontare le sfide del deserto.

- Abitare nel Circolo Polare Artico
Probabilmente l’anfibio più estremo del pianeta è Rana sylvatica, un anuro che abita le foreste boreali del Nord America, di per sé ben adattato a climi freddi, ma una popolazione in particolare è arrivata a popolare il Circolo Polare Artico, grazie ad un adattamento fisiologico strabiliante.
In Alaska, Rana sylvatica congela (nel vero senso della parola) per sette lunghi mesi. Due terzi della sua acqua corporea si trasforma in ghiaccio, il cuore smette di battere, il sangue non scorre più, l’attività metabolica e i processi fisici si fermano, ma la rana non muore. In primavera si scongela (letteralmente) ed il suo organismo lentamente riprende le sue funzioni.

In un organismo animale l’esposizione prolungata a temperature sotto lo zero provoca la morte cellulare in seguito a raggrinzimento, un processo in cui la formazione di ghiaccio nei tessuti estrude l’acqua dalle cellule causandone il decesso. Rana sylvatica invece congela e poi resuscita. Cose che si vedono solo nei film di fantascienza. Il suo segreto? Questione di chimica. È dotata di molecole antigelo, dette crioprotettori: soluti che abbassano la temperatura di congelamento dei tessuti, in grado di mantenere l’acqua all’interno delle cellule controbilanciando i sali. Sono in particolare gli alti livelli di glucosio nelle cellule di queste rane che le mantengono in vita durante l’inverno lungo e freddo, seppur consentendo il congelamento, non permettendo il raggrinzimento e la morte cellulare.
I ricercatori che per anni hanno studiato questa popolazione di super rane, l’hanno confrontata con individui della stessa specie prelevati dalla popolazione locale dell’Ohio. Sebbene entrambi i fenotipi mostrassero un’impressionante tolleranza al congelamento, c’erano alcune notevoli differenze: mentre le rane dell’Ohio congelavano (senza subire alcun danno cellulare) fino a – 4 °C, le rane dell’Alaska resistevano a temperature fino a – 16 °C. Ulteriori studi hanno poi evidenziato che il fenotipo settentrionale delle rane si distingue per avere una maggiore capacità di riserva di glucosio, accumulando alti livelli di crioprotettori nei tessuti.

- Immersi nell’oceano
Vivere nelle acque salate comporta notevoli problemi che in terra ferma o nelle acque dolci non ci sono, da cui consegue la necessità di avere particolari adattamenti.
L’acqua di mari e oceani ha una composizione chimica complessa, è ricca di ioni, che se accumulati dagli animali risultano tossici. Gli organismi marini si trovano di fronte alla difficoltà di mantenere il proprio equilibrio osmotico per sopravvivere, ed ognuno ha escogitato la propria strategia per ridurre le perdite di acqua corporea e facilitare l’escrezione dei sali. I rettili marini regolano il contenuto di sale mediante specifiche ghiandole saline. Un altro esempio di evoluzione convergente, dove la stessa struttura, con la stessa funzione, sembra essersi sviluppata in modo del tutto indipendente, in diversi taxa di rettili non imparentati tra loro: le iguane marine (Amblyrhynchus cristatus) usano una ghiandola nasale, le tartarughe marine (Chelonoidea) una ghiandola lacrimale; i veri serpenti marini (Hydrophiinae) e i kraits marini (Laticaudinae) hanno ghiandole sublinguali, mentre i coccodrilli estuarini (Crocodylus porosus) ne possiedono una linguale.

Un’altra sfida nell’oceano è quella di sviluppare una capacità respiratoria adatta alle immersioni. In generale tutti i rettili marini possono affrontare lunghi periodi di apnea e adottare un metabolismo anaerobico che non richiede ossigeno, gli Hydrophiinae sono però i più specializzati: in grado di respirare anche attraverso la pelle, ottengono così circa un quinto dell’ossigeno di cui hanno bisogno ed allo stesso tempo eliminano quasi tutto il biossido di carbonio prodotto. Infine, l’eliminazione dell’azoto attraverso la pelle riduce il rischio di formazione di bolle nelle immersioni lunghe, permettendo a questi serpenti di poter prolungare l’apnea e scendere più in profondità.

Notevoli sono anche i problemi legati alla termoregolazione, considerato che le acque dell’oceano sono generalmente piuttosto fredde e che i rettili, essendo animali ectotermi, necessitano di uno specifico range di temperatura corporea per l’ottimale funzionamento delle loro attività metaboliche. Quando scendono sotto a questo intervallo, la funzionalità dell’organismo comincia a calare, il metabolismo rallenta e, nel caso in cui la temperatura continui a diminuire, se viene passata la soglia critica inferiore, l’animale va incontro alla morte.
Il mare nelle Isole Galapagos è freddo, ma Amblyrhynchus cristatus deve affrontarlo se vuole sopravvivere, poiché la sua principale fonte di nutrimento si trova sotto a quelle acque. Le iguane marine si cibano infatti di alghe bentoniche, che brucano durante i brevi, ma numerosi, viaggi di foraggiamento nel corso della giornata. Ad aggravare la situazione le acque costiere sono violente, le onde si spingono forti verso la scogliera lavica e le iguane rischiano di essere scaraventate dalla risacca. Molti esemplari vanno incontro alla morte solo per tentare di cibarsi, la vita di questi rettili unici, endemici delle Galapagos, è estremamente dura, nonostante tutti i loro adattamenti. Un elemento che ha permesso alle iguane marine di prosperare in queste isole inospitali è stata la storica scarsa presenza di predatori naturali. Oggi però tra le varie minacce, che sottopongono la popolazione a contrazioni numeriche, una forte pressione deriva dall’introduzione, da parte dell’uomo, di numerosi ed infallibili predatori alloctoni, come gatti, cani selvatici e ratti. Come a volerci dimostrare che nessun adattamento, nemmeno il più specializzato ed efficiente, può reggere il confronto con l’impatto antropico.

Fonti ed approfondimenti:
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Attenborough D. (2007) “Life In Cold Blood” – BBC Books
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Bertolero A. et al. (2011) “Marine Reptiles: Adaptations, Taxonomy, Distribution And Life Cycles” – Encyclopedia of Life Support Systems
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Commans P. et al. (2017) “Adsorption and movement of water by skin of the Australian thorny devil (Agamidae: Moloch horridus)” – Royal Society Open Science
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Costanzo J.P. et al. (2013) “Hibernation physiology, freezing adaptation and extreme freeze tolerance in a northern population of the wood frog” – The Journal of Experimental Biology
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Larson D.J. et al. (2014) “Wood frog adaptations to overwintering in Alaska: new limits to freezing tolerance” – The Journal of Experimental Biology
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Withers P.C. & Dickman C.R. (1995) “The role of diet in determining water, energy and salt intake in the thorny devil Moloch horridus (Lacertilia: Agamidae)” – Journal of the Royal Society of Western Australia
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Zeng C. et al. (2014) “Evolution of Rapid Development in Spadefoot Toads IsUnrelated to Arid Environments” – Plos One
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